Il neoliberismo non fa acqua. Fa soldi

 


Nei periodi estivi, in gran parte d’Italia, siamo abituati al riproporsi del problema legato all’erogazione dell’acqua.

La mancanza, ovvero la non erogazione dell’acqua potabile, è l’effetto. Ma ne conosciamo la causa? Possiamo accontentarci della classica motivazione ricorrente, che gli utenti, ossia noi, consumiamo acqua a dismisura? È sufficiente sentirsi dire che le tubature sono obsolete e che non ci sono i soldi necessari?

Intanto cerchiamo di capire come viene gestito il servizio idrico integrato in Italia.

Le reti idriche sono di proprietà pubblica e la loro vendita a soggetti privati, anche se a completo capitale pubblico, è vietata. La loro gestione però può essere affidata a soggetti privati.

In Italia abbiamo le reti che sono pubbliche e la gestione è affidata per la quasi totalità a società il cui capitale è per la maggior parte pubblico.

Ad oltre la metà degli italiani, il servizio viene erogato da società pubbliche, a circa il 30% da società miste a maggioranza pubblico, circa un 12% direttamente dall’ente locale, circa il 2% da società private e circa l’1% da società miste ma a maggioranza private.

A livello europeo esistono varie normative, che ne stabiliscono i minimi standard qualitativi, che però vengono attuate in maniera diversa per ogni singolo paese membro.

A ben leggere i dati ISTAT che danno come valore di dispersione media oltre il 40%, la motivazione dei presunti sprechi domestici appare non sufficiente a giustificarne la mancanza. La nostra rete idrica è in uno stato pietoso per scarsa e tardiva manutenzione di impianti vecchi e per la poca efficienza di molti sistemi.

Ben poco regge la teoria per la quale gli investimenti per l’ammodernamento delle infrastrutture per la captazione e la distribuzione dell’acqua potabile non sia possibile a causa del basso costo dell’acqua in Italia in rispetto agli atri paesi europei. Nell’ultimo decennio il costo della bolletta dell’acqua per gli italiani è cresciuto di circa il 90%.

Ricordiamo tutti il referendum del 2011 in cui proprio in materia di acqua pubblica gli italiani si espressero in maniera chiara ed inequivocabile chiedendo che l’acqua rimanesse un bene comune pubblico.

A quella chiara indicazione a seguito del referendum nessuna legge in tal senso è seguita.

Da parte di nessuna maggioranza.

Altro fatto che incide nel contesto soprattutto economico e quindi incidente sulla presupposta impossibilità di investire sulle infrastrutture, è proprio la gestione di tipo privatistico anche se ci troviamo di fronte a società in prevalenza a maggioranza pubblica.

Le SPA che gestiscono il servizio spalmando gli oneri derivanti dalla dispersione delle reti sul costo da addebitare ai cittadini, non “sentono” la necessità di operare miglioramenti ed apportare innovazione.

Arricchendo di fatto i gestori a danno della collettività che paga l’inefficienza di un servizio gestito di fatto in modo privatistico e non pubblico che predilige i profitti, contrariamente a quanto richiesto dagli italiani nel referendum del 2011 rispondendo al quesito con cui si abrogava il diritto garantito di realizzare profitti per il 7%.

I gestori preferiscono immettere più acqua nelle linee e quindi contribuire all’aumento della dispersione di gran parte di essa, piuttosto che impiegare parte dei loro profitti per apportare interventi. Questo perché quantunque ci siano grossi problemi di tipo ambientale, l’Italia al momento non corre il rischio di rimanere a secco non avendo grossi problemi di approvvigionamento.

Questo atteggiamento, unito al progressivo peggioramento della qualità delle risorse idriche, assottiglia di fatto l’utilizzo corretto di questo bene primario per il presente e ancor più per il futuro.

Ad aggravare la situazione, specialmente in prospettiva, contribuisce l’utilizzo di acqua potabile per usi per i quali si potrebbero riutilizzare acque come quelle in uscita dai depuratori, non sottoposte a filtraggi propri per la potabilizzazione, ad esempio per gli scarichi dei servizi igienici ed altri tipi di lavaggi.

All’orizzonte si staglia un’ombra proprio sulla possibilità di mantenere l’acqua come bene pubblico e non privatizzabile e quindi a disposizione di tutti.

Dopo una lunga stagione di privatizzazioni per la gestione, l’acqua, nel 2020, è stata quotata per la prima volta in borsa a Wall Street. La finanza sta iniziando ad attaccare anche questo bene primario assimilandolo di fatto ad una materia prima.

La teoria neoliberale per la quale il mercato disciplini tutto ha promosso il crescente ricorso ad ogni forma possibile di privatizzazione con la solita scusa che, essendo un dato bene scarso, solo il mercato può regolarne e disciplinarne l’uso.

Trattando l’acqua alla stregua di un business qualunque, si pongono anche problemi di democraticità nella gestione dell’acqua stessa, ponendo il cittadino nella sola posizione di cliente, ma senza risolvere il problema a monte, ovvero l’uso e la corretta distribuzione di questo bene primario.

“Garantire la gestione sostenibile delle risorse idriche lungo l’intero ciclo e il miglioramento della qualità ambientale delle acque interne e marittime”.

Così recita e questo si dice di porsi come obiettivo nel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).

Ma davvero è divenuta priorità risolvere la questione della grande mole di dispersione di acqua?

Nel PNRR non si parla di promulgare una legge che attui quanto all’esito del referendum del 2011.

Anzi, siamo di fronte al rilancio delle privatizzazioni e delle unioni tra pubblico e privato che aprirà la strada alle società del Centro Nord Italia per la conquista del Sud Italia dando una definita spallata al referendum del 2011 aprendo la strada all’applicazione delle teorie neoliberali sul concetto di mercato che regola tutto. Anche applicate ai beni primari.

Salvo poi sciacquarsi la coscienza neoliberista con acqua rigorosamente ricavata dalle feci in nome di una filantropia pelosa.