Il lavoro è una cosa seria e le regole ancor di più

Da quando è entrato Draghi a palazzo Chigi si sono ulteriormente perse le tracce di molte questioni ed altre hanno assunto, agli occhi di gran parte dell'opinione pubblica, contorni diversi.

Dal radar dell'opinione pubblica sono sparite, anzi, sono state fatte sparire, tutte le questioni legate ai licenziamenti in corso da parte di multinazionali.

La cortina fumogena del mainstream ha coperto tutto ciò che è stato deciso dovesse essere coperto e martella nella “rieducazione” degli italiani per quanto alle priorità e alla scala dei valori da perseguire.

Il famoso e allo stesso tempo famigerato “tavolo sulle crisi industriali” che fine ha fatto?

Tutte le crisi, e si parlava di decine e decine di crisi, si sono risolte?

Come si sono risolte?

O hanno fatto tutti la fine dei lavoratori della GKN e della Whirlpool?

La sensazione è che si stia stringendo sulla liquidazione del lavoro in Italia.

Non si parla più di questioni concrete, ci si confronta con enunciazioni che nulla portano se non a delineare l'ennesima prospettiva di comodo del “dobbiamo fare”, “faremo”, “la nostra proposta è chiara", “come abbiamo sempre detto”.

Una prospettiva falsa e fasulla visto il reiterarsi delle “proposte” come nel caso del taglio del cuneo fiscale.

Quella del “va tagliato il cuneo fiscale” è un mantra ormai consumato dei giorni, anni ormai, nostri.

Non si arriva mai ad una definizione.

Eppure abbiamo visto e vediamo bruciare milioni e milioni di euro in bonus che a nulla o a pochissimo valgono per chi li riceve.

Bonus sui monopattini, sulle TV, sui rubinetti e chi più ne ha più ne metta.

Ma nulla di serio e soprattutto di organico e strutturale è stato proposto e fatto.

Eppure tutti coloro che siedono comodamente in parlamento dicono che il lavoro per gli italiani è il loro primo pensiero.

I fatti non lo dimostrano.

Anzi, ogni ipotesi finita per essere adottata, alla resa dei contenuti e alla analisi dei frutti, pare si riveli foriera di altri problemi.

Nella situazione attuale, dopo aver demolito e minato sin nel profondo il tessuto imprenditoriale e lavorativo italiano, si continua a creare confusione e disorientamento.

Prendiamo ad esempio il "reddito di cittadinanza", misura che ha la possibilità di portare a varie letture.

Eppure quella che dovrebbe essere la principale non sembra essere tenuta da conto.

La misura, senza una profonda revisione delle regole del lavoro, sarà sempre e solo portatrice di problemi e creerà sempre, e ancor più, sentimenti, valutazioni e posizioni contrastanti e divisive.

Una misura simile, con qualunque nome la si voglia chiamare, ha e avrà un valore solo ed esclusivamente nel momento in cui si troverebbe ad essere innestata in un sistema di accesso al lavoro e di salari concretamente rispettoso di tutte le prerogative dei diritti e dei doveri necessari ad un sano rapporto costruttivo tra il mondo delle imprese e quello dei lavoratori.

Invece continuiamo ad avere chi preferisce il reddito di cittadinanza, per come è strutturato, ma ancor più per come è strutturato e retribuito gran parte del mondo del lavoro dipendente.

Un esempio concreto? I lavoratori delle cooperative impiegate nell'erogazione di servizi proprio dalle strutture pubbliche. I loro stipendi, spesso sono ben al di sotto di mille euro. E non solo per il numero basso di ore loro assegnato.

Questa considerazione apre anche al ragionamento sul *salario minimo".

Ancora una volta si assiste ad una discussione che pare voglia fissare un paletto che invece di garantire i lavoratori, li porterà indietro.

Ricordate la flessibilità del Jobs Act?

Più che di flessibilità, possiamo parlare di elasticità, si ma non in senso estensivo, in senso retroattivo del termine perché ha prodotto per gran parte dei lavoratori una compressione dei diritti e delle certezze lavorative.

Unendo i puntini appare un disegno abbastanza desolante che si concretizza in un percorso di continua riduzione della possibilità di avere una stabilità personale e di vita.

La direzione intrapresa è chiara: la precarizzazione dell'accesso al lavoro come pilastro della precarizzazione in senso più ampio e profondo della vita dell'uomo.

Questo sempre in ossequio al cancro che si è impossessato della UE: il neoliberismo.

Il neoliberismo per sopravvivere si nutre della nostra vita e della limitazione e compressione dei nostri diritti in cambio dell'elevazione al rango di diritti dei capricci di alcuni che ci vengono propinati come “modernità” e “progresso”.

Il lavoro è uno dei pilastri della vita di ognuno di noi e non può risolversi né con un “gli italiani, e specialmente i giovani non vogliono lavorare", né con un ”gli imprenditori sono tutti cattivi.

In Italia si è arrivati a mettere in concorrenza il lavoro con il reddito di cittadinanza.

Il mondo delle industrie, specialmente quello che sta in mano alle multinazionali, non dimentichiamo che siamo nel G7, butta fuori le persone a centinaia salvo poi prendere lavoratori con contratto di somministrazione per la quasi totalità a tempo e atipici, con forte rotazione.

Quindi quando si parla di lavoro, se i risultati sono questi in Italia, qualcosa, e forse più di qualcosa, non funziona. E non si caccino fuori gli stornelli recenti come “si ma la pandemia…” o “la crisi”.

Qui il problema lavoro è stato reso strutturale, così come quello delle retribuzioni.

Guarda caso da dopo il 1992 e dopo l'ingresso nella moneta unica.

(Foto da Pixabay)